In determinate situazioni, il part time potrebbe essere preferito inizialmente proprio per venire incontro alle esigenze familiari, ma, specifica il report, poi «l’impossibilità di convertire un part time in un full-time ne determina l’involontarietà». E il fenomeno colpisce, in proporzione, di più le donne.
Secondo il rapporto, il 16,5% delle lavoratrici occupate si trova in una condizione di part time involontario, a confronto con solo il 5,6% degli uomini.
Il part time, pensato originariamente per bilanciare meglio vita privata e lavoro, in Italia spesso si trasforma in una forma di marginalizzazione lavorativa che colpisce prevalentemente le donne.
Il part time appare come la modalità di assunzione “preferita” per le donne: in tre aziende su cinque, le posizioni sono occupate quasi esclusivamente da donne. Questo si verifica in un contesto dove il divario di genere nell’occupazione è marcato: secondo l’Istat, nel 2022, il 55% delle donne tra i 20 e i 64 anni era impiegato, contro il 74,7% degli uomini, con una differenza notevole tra donne senza figli e quelle con figli minori di sei anni, queste ultime più penalizzate.
L’ultimo Gender Equality Index, che valuta gli Stati membri dell’Unione Europea su una scala da 1 a 100 in ambiti come lavoro, salute e potere, colloca l’Italia al 13esimo posto su 27, con un punteggio di 68,2, sotto la media europea di 70,2. Sebbene dal 2010 l’Italia abbia registrato miglioramenti in salute, potere e gestione del tempo, rimane all’ultimo posto nel parametro lavoro, con un punteggio di 65. Per confronto, la Spagna, che ha avuto un incremento nel part time involontario simile all’Italia ma ha invertito la tendenza nel 2017, nel settore lavoro ha superato l’Italia di dieci punti nel Gender Equality Index.
Non solo incide per la maggior parte sulle donne, ma i dati raccolti hanno evidenziato come per lo più il part time involontario si ritrovi in contratti a tempo determinato (23 per cento), più che in quelli a tempo indeterminato (9 per cento).
Il part time involontario è più diffuso nel Sud Italia, tra gli stranieri e tra coloro con un livello di istruzione più basso. Una persona intervistata nel report racconta: “Volevo iscrivermi all’università, ma a causa di problemi familiari ho dovuto iniziare a lavorare subito per supportare la mia famiglia. Inizialmente facevo sostituzioni per malattia e lavoravo 6-7 ore al giorno, con la promessa di un’assunzione stabile. Ho resistito e sono stata assunta con un contratto di 17 ore e mezzo alla settimana, con la promessa di un aumento delle ore, promessa che dopo sei anni non è stata mantenuta”.
Prosegue, spiegando che senza straordinari non guadagna neanche 600 euro al mese. Il paradosso è che anche coloro che scelgono il part time per equilibrare meglio vita privata e lavoro finiscono per cercare più impieghi per sostenersi economicamente.
In confronto alla media europea, dove un quarto dei lavoratori si trova in questa condizione involontariamente, in Italia la percentuale è molto più alta, quasi uno su due. Questo sottolinea come, secondo il rapporto, il part time in Italia sia spesso più una strategia aziendale che una vera risposta alle esigenze di conciliazione dei lavoratori.
Riguardo ai datori di lavoro che adottano il part time come prassi regolare (nei casi in cui riguarda oltre il 70% dei dipendenti), questi sono più frequenti nel settore dei “servizi vari”, turismo e commercio. Le aziende interessate sono o molto piccole, con meno di 5 dipendenti, o molto grandi, con oltre 250. Lo studio evidenzia che in queste realtà c’è una scarsa propensione all’uso di strumenti di flessibilità a sostegno dei lavoratori, nonché una limitata adozione di misure per facilitare il lavoro agile e spesso manca una rappresentanza sindacale.