Assenza per malattia prolungata, cosa succede dopo 6 mesi? Cosa c’è da sapere su licenziamento e stop all’indennità Inps
Quando un dipendente è assente per malattia, beneficia di una doppia protezione: ha diritto a un’indennità sostitutiva che, seppur parziale, contribuisce a mantenere il suo stipendio e conserva il suo posto di lavoro.
Tuttavia, se l’assenza per malattia si prolunga nel tempo o se si verificano frequenti assenze durante l’anno, queste protezioni potrebbero essere compromesse, mettendo il lavoratore a rischio anche di essere licenziato.
Ad esempio, un aspetto importante da considerare è il limite di 6 mesi di assenza, corrispondenti a 180 giorni, che possono verificarsi in qualsiasi momento durante l’anno. Superato questo limite, il diritto del lavoratore a percepire la retribuzione durante la malattia può essere revocato.
Assenza per malattia superiore ai sei mesi, quali sono i rischi per il lavoratore?
Tuttavia, è essenziale comprendere che questo limite non coincide necessariamente con il momento in cui il datore di lavoro è autorizzato a procedere con il licenziamento per malattia.
Questo momento, noto anche come fine del periodo di comporto, potrebbe non coincidere esattamente con i 180 giorni di assenza oltre i quali non è più fornita l’indennità di malattia dall’Inps o dal datore di lavoro.
È diritto del lavoratore dipendente subordinato mantenere il diritto alla retribuzione nei giorni di assenza per malattia. Nel dettaglio, la regola generale prevede che l’Inps si faccia carico della cosiddetta indennità di malattia, nei seguenti giorni e per le seguenti cifre:
- dal 4° al 20° giorno di assenza è pari al 50% della retribuzione media globale giornaliera percepita dal lavoratore nel mese precedente all’inizio della malattia;
- dal 21° e fino al 180° giorno di assenza è pari ai 2/3 (ossia al 66,66%) della retribuzione media giornaliera di cui sopra.
I primi 3 giorni, invece, non sono coperti da indennità, salvo il caso in cui il contratto collettivo di riferimento non preveda chiaramente che a farsi carico della retribuzione durante il cosiddetto periodo di carenza sia il datore di lavoro.
Sempre il contratto potrebbe anche stabilire che il datore di lavoro debba integrare l’indennità di malattia erogata dall’Inps, così da renderne l’importo quanto più vicino allo stipendio.
Va detto che oggi nella maggior parte dei Ccnl queste tutele sono previste, prevedendo ad esempio che il datore di lavoro continui a riconoscere lo stipendio nei primi giorni di malattia.
Come anticipato, però, esiste un limite oltre cui la malattia non spetta: si tratta del 180° giorno goduto, anche in maniera non continuativa, durante l’anno solare.
Al 1° gennaio di ogni anno, quindi, si azzera tutto e il lavoratore avrà a disposizione nuovamente 180 giorni di assenza indennizzabili, e così via.
Facciamo un esempio pratico: Giovanni, assente dal lavoro dal 1° ottobre 2023 al 30 aprile 2024, pur essendo assente da 7 mesi continuativi, ha comunque diritto all’indennità di malattia per l’intero periodo, visto che il limite dei 6 mesi nello stesso anno solare non risulta superato (in quanto sono 3 mesi nel 2023 e 4 mesi nel 2024 -.
Tuttavia, lo stesso Giovanni ha nuovamente necessità di assentarsi da luglio a novembre 2024: in tal caso avrà diritto all’indennità di malattia solamente nei mesi di luglio e agosto, dopodiché non spetta alcunché, né dall’Inps e né dal datore di lavoro.
Prima di andare avanti è necessario soffermarsi per un attimo sui rapporti di lavoro a tempo determinato. Non è detto, infatti, che chi è assunto con contratto a termine abbia diritto a 180 giorni di malattia pagata.
In tal caso, infatti, la durata dell’indennità di malattia si calcola considerando il numero di giorni lavorati nei 12 mesi immediatamente precedenti, da un minimo di 30 a un massimo di 180 giorni. Ad esempio, un lavoratore assunto da appena 4 mesi ha diritto a soli 120 giorni di indennità di malattia nell’anno solare.
No, in quanto i 6 mesi – o meglio, i 180 giorni – sono solamente il limite entro cui avere diritto alla malattia retribuita. Non vanno confusi con il periodo di comporto, ossia il termine oltre il quale il datore di lavoro è autorizzato a procedere con il licenziamento del dipendente continuamente assente per malattia.
Nel dettaglio, la normativa stabilisce che durante il periodo di malattia il dipendente ha diritto a conservare il posto di lavoro, a eccezione di quando:
- la malattia provoca uno scarso rendimento che comporta un danno per il datore di lavoro;
- viene superato il periodo di comporto.
L’errore da non commettere è pensare che il periodo di comporto coincida con i 6 mesi indennizzati dall’Inps, perché non è così. La durata del comporto, infatti, è generalmente indicata dalla contrattazione collettiva.
È il Ccnl, dunque, a stabilire quanti giorni di assenza può fare il dipendente per non rischiare il licenziamento, con il numero che solitamente è tanto più alto quanto maggiore è l’anzianità di servizio (o la qualifica ricoperta).
Ad esempio, il Ccnl commercio stabilisce che i lavoratori hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro per 180 giorni nell’anno solare con l’aggiunta di altri 120 giorni di aspettativa più altri 12 mesi in presenza di gravi patologie certificate.
Nel Ccnl metalmeccanici, invece, il comporto è di 183 giorni di calendario per chi ha un’anzianità di servizio fino a 3 anni compiuti. Il comporto viene prolungato a 274 giorni nell’ipotesi di un evento morboso continuativo. Maggiore è l’anzianità e più lungo è il periodo in cui spetta la conservazione del posto: 9 mesi per chi è in azienda da oltre 3 anni e per non più di 6, 12 mesi per chi è da più di 6 anni.
Quindi, per quanto anche i Ccnl quindi prendano spesso come riferimento i 180 giorni di assenza nell’ultimo anno per autorizzare il licenziamento del dipendente, non sempre il periodo di comporto coincide esattamente con il termine del pagamento dell’indennità di malattia.