Sono stati individuati dei neuroni che decidono la velocità con cui si mangia e il momento in cui fermarsi
La mission è promettente e il nome è decisamente simpatico, anche se si tratta di una questione in realtà delicata come i disturbi alimentari.
L’ultimo studio rileva l’esistenza di particelle in grado di equilibrare il consumo esagerato di cibo, le quali potrebbero prevenire diverse problematiche relative all’obesità.
Conosciamo allora meglio i cosiddetti “neuroni anti-abbuffata”.
L’obesità è un problema di salute pubblica che sta diventando sempre più diffuso in tutto il mondo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2022 il 59% degli adulti europei e quasi 1 bambino su 3 (29% dei maschi e 27% delle femmine) è in sovrappeso o è affetto dall’obesità, ormai considerata una vera e propria malattia.
A livello globale, più di un miliardo di persone sono obese o in sovrappeso: 650 milioni di adulti, 340 milioni di adolescenti e 39 milioni di bambini.
Si tratta dunque di una malattia complessa le cui cause sono molto diverse e non derivanti solo dalla semplice combinazione di dieta inadeguata e inattività fisica.
Oltre che da comportamenti alimentari persistenti che hanno un impatto negativo sulla salute, il disturbo alimentare può gravemente impattare sulle emozioni e sulla capacità di gestire altre situazioni in aree importanti della vita.
Uno degli ultimi studi nel campo ha però individuato uno spiraglio di luce: sono stati rilevati dei neuroni che hanno preso il nome, e la mission, di “anti-abbuffata”.
La ricerca dell’Università della California a San Francisco e i suoi risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista internazionale Nature, in cui vengono descritti anche gli esperimenti relativi, esercitati sui topi.
Situati nel tronco encefalico, i neuroni anti-abbuffata decidono la velocità con cui si mangia e il momento in cui fermarsi, in base ai segnali inviati da bocca e intestino.
Si tratta dello stesso circuito nervoso su cui agiscono alcuni farmaci antidiabetici come la semaglutide, che vengono sempre più utilizzati per il dimagrimento.
Il team californiano di scienziati, guidato dal fisiologo Zachary Knight, ha modificato geneticamente dei topi in modo che i neuroni, una volta attivati, emettessero un segnale fluorescente rilevabile da un sensore di luce impiantato nel cervello.
Grazie a questa tecnica, hanno potuto osservare che immettendo il cibo direttamente nello stomaco si scatenavano dei segnali che dal tratto gastrointestinale arrivavano al cervello per attivare i neuroni Prlh e frenare l’appetito, come teorizzato da studi precedenti.
Quando invece è stato permesso ai topi di mangiare liberamente, i neuroni Prlh si sono attivati in base agli input provenienti dalla bocca, e in particolare alla percezione del gusto dolce, dimostrando che le papille gustative sono il primo baluardo contro le abbuffate. In pratica è un sistema di pesi e contrappesi, che da un lato riconosce il cibo buono e invita a consumarlo, e dall’altro impedisce di mangiarlo in eccesso: dall’equilibrio tra queste due spinte dipende la velocità con cui si mangia. Questo impatta, in un certo senso, anche la quantità ingerita.
I ricercatori hanno anche individuato un’altra famiglia di neuroni – chiamati Gc – che vengono attivati più lentamente da segnali provenienti dall’intestino e che decidono quando smettere di mangiare, frenando l’appetito su tempi più lunghi.
I neuroni Gcg, una volta attivati, rilasciano l’ormone Glp-1, la cui azione è proprio quella mimata dai farmaci dimagranti come la semaglutide.
Tutte le scoperte ad opera dell’Università della California potrebbero non solo aiutare a studiare i meccanismi che regolano l’appetito anche nell’uomo, ma si spera che potrebbero portare anche a sviluppare nuove terapie per curare e contrastare l’obesità.
Quest’ultima è una malattia complessa che richiede un approccio multidisciplinare per la cura. La dieta e l’esercizio fisico sono il primo passo per chi vuole perdere peso, ma non sempre sono sufficienti per contrastare i casi di obesità di grado importante. In questi casi, la chirurgia bariatrica può essere una valida opzione.
Inoltre, esistono anche terapie farmacologiche che possono aiutare a perdere peso, benché solo in abbinamento ai cambiamenti adottati nello stile di vita, nella dieta e nella pratica fisica quotidiana. Lo studio di San Francisco si inserisce, speranzoso, in questa direzione.
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